Bianchini:manderò a canestro le università italiane

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Fabio Zingone
00domenica 19 settembre 2004 22:28
Tra un viaggio in Albania, dove ha scoperto che l’ex cestista che ai tempi fungeva da interprete e da accompagnatore delle sue squadre è diventato un sindaco lungimirante («Ha dato a Tirana un look colorato e accattivante»), e una rivisitazione del basket italiano destinata a un libro, Valerio Bianchini ne ha pensata un’altra delle sue: «Userò uno slogan riassuntivo: il laureato, anzi il laureando, andrà a canestro». Traduzione: è pronto a lanciare un campionato universitario sulla falsariga di quello della Ncaa statunitense. «Per la nostra pallacanestro, che da un lato pesca jolly formidabili quale l’argento olimpico ma che dall’altro si cristallizza in polemiche sterili, finendo per giunta ostaggio di manager, procuratori e ‘‘papponi’’ vari, è un’occasione formidabile. E lo è pure per la Federazione, bisognosa di una scossa: è ora che immagini il suo futuro». Avevamo lasciato Bianchini un anno e mezzo fa nelle more del disastro della Virtus Bologna: tecnico sconfitto e secondo molti ormai «bollito», manager - in virtù di precedenti, brevi esperienze - solo abbozzato e comunque rimasto in embrione. Si era pure rotto un braccio, poveraccio, travolto da un giocatore che stava provando a dividere dal compagno, avendo l’energumeno deciso di mettere le mani addosso all’altro. No, non poteva essere quella la fine di uno dei personaggi più creativi mai avuti da questo sport, l’uomo delle provocazioni e delle grandi sfide, in campo e verbali, con la Milano di Dan Peterson. Ed è proprio il «nemico» dell’epoca ad averlo rafforzato nei propositi. «Il pamphlet che Dan ha scritto dopo la figura poco brillante degli Usa ad Atene contiene l’essenza del problema del basket americano: è la tendenza sempre più marcata a saltare il passaggio dell’università, causa il trasferimento diretto dal liceo alla Nba. Riflettevo: è una lacuna anche nostra, storica; noi, infatti, l’università che produce giocatori non l’abbiamo mai avuta. E non abbiamo mai avuto nemmeno i licei, essendo la scuola, modifiche o non modifiche, sempre ancorata alla riforma Gentile. Il quale era un filosofo e un idealista, non certo uno sportivo...».
Antefatto necessario. Pur essendo stato messo dalla pallacanestro su un binario morto, Bianchini non ha smesso di pensare in funzione del Grande Ingrato. «Sono diventato professore all’Università di Tor Vergata, corso di laurea in scienze motorie: insegno basket, logicamente. Parlando con i responsabili di altri istituti e soprattutto con il mio ‘‘capo’, il professor Antonio Lombardo, mi sono accorto che c’è un forte desiderio di sport e di ricalcare il modello degli Usa, dove l’attività di una squadra crea il senso di appartenenza alla propria Alma Mater, oltre che ritorni non trascurabili sul piano economico. In Italia ci sono già gli esempi di Chieti, che grazie a un team femminile ha dato vita a un campus splendido, con un palazzetto da leccarsi i baffi, della Luis a Roma e della Liuc a Castellanza. Si tratta adesso di pensare a qualcosa di coerente e di aggregante, da collocare nella realtà nazionale».
Ecco il progetto, allora: creare un circuito universitario che all’inizio coinvolga almeno dieci atenei; una stagione regolare e poi i playoff. A cascata, si potrebbe poi sbloccare lo stallo degli istituti minori: avremmo la piramide che oggi manca, detto che nel futuro si potrebbe magari arrivare al meccanismo delle scelte per dirottare giocatori alla serie A. «Un campionato del genere si inserirebbe nell’attuale schema della formazione universitaria, basata sulla laurea triennale. Di più: andrebbe a interessare proprio quella fascia di cestisti che soffre il passaggio dal dilettantismo al professionismo. Spesso buttiamo via potenziali talenti proprio a causa di questi ostacoli». Il meccanismo è ancora da mettere a fuoco, ma i problemi teorici paiono tutti risolvibili. «In quale contesto inserire il torneo? Si può scegliere: o la Fip dedica uno spazio già esistente, ad esempio un girone della B2, oppure, per evitare di confondere le mele con le pere, crea una visibilità ad hoc. Come la mettiamo con gli eventuali studenti stranieri? Avrebbero, in linea di principio, pari dignità e pari opportunità degli ‘‘indigeni’’; ma si dovrebbe poi trovare un modo per tutelare gli italiani. E come fare, infine, con il vincolo, che ancora lega un giocatore a un club prima del professionismo? Semplice: propongo la sospensione di questo regime per i tre anni universitari».
Nessun giocatore sarebbe stipendiato; a libro paga solo l’allenatore, «ma a cifre ragionevoli». Una squadra costerebbe circa 600 milioni delle vecchie lire, «però con le sovvenzioni Ue e dei Cus, oppure grazie all’attività amatoriale ‘‘intramural’’, che genera profitto attraverso le quote d’iscrizione e la vendita di gadget, si resterebbe a galla». Presto il piano girerà per le università italiane. L’obiettivo è di fare presto, la speranza è una sola: «Formare ragazzi completi e moderni. Che conoscano Shakespeare, ma che apprezzino pure lo sport».
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